giovedì 1 settembre 2011

C'è vita umana venti mila leghe sotto i mari



Duecento metri sotto il mare la terra sembra la luna, il lato oscuro della luna. I movimenti sono rallentati, la sabbia è chiara e la visibilità e ridotta. Ci sono pesci, crostacei e alghe che non vedono mai la luce del sole. Duecento metri sotto il mare ci sono anche tubature di metallo, condotti in cui corrono gas, metano e altre sostanze fondamentali, per questo è necessario che tutto il percorso avvenga velocemente e senza dispersioni. 
È per questo motivo che alcuni uomini scendono in queste profondità semi inesplorate per lavorare. Marcello Casadei è un ragazzo come molti, ha trentatré anni, vive a Cervia ed è uno dei sommozzatori che ha partecipato al documentario di Yuri Ancarani Piattaforma Luna. Vive a metà tra terra e mare. Fa l’OTS, Operatore Tecnico Subacqueo: scende nelle profondità per riparare queste enormi tubature per Eni, Agip e altre aziende. Saldature a freddo fatte a centinaia di metri sotto il livello delle piattaforme. Per 28 giorni vive in una stanza iperbarica, una sfera di tre metri di diametro dentro cui trascorre le giornate con uno, due o tre compagni, mentre il corpo si abitua alla pressione del fondale del mare. «Noi la chiamiamo “bin” – racconta Casadei – ovvero “bidone”, lo diciamo per scherzo, ma rende l’idea delle sue dimensioni». 

In questa piccola stanza dormono uno sopra l’altro in letti a castello. Hanno un tavolo pieghevole e un bagno. Ogni sedici ore escono in mare per lavorare nelle profondità per quattro ore di fila. Indossano una muta tenuta a temperatura corporea grazie a una canalina di acqua calda che corre a serpentina tutto attorno al corpo. La testa invece rimane all’asciutto in un casco da palombaro da cui possono comunicare con un collega nella camera. Una luce illumina il fondale dalla “campana” con cui si calano. Respirano ossigeno mescolato con elio e tra loro parlano con vocine buffe come quando si aspira il gas dai palloncini per scherzo. «Nemmeno il cibo è normale là sotto – spiega – quando superi i 150 metri di profondità se mangi piselli o patate sa tutto della stessa cosa, sa tutto di niente». 

Marcello ha lavorato nei fondali della Costa d’Avorio, dell’Indonesia, dell’Adriatico, del Congo fin dal 1999. È un freelance, ma non fa questo lavoro per guadagnare soldi, «non si prende molto, si è pagati come semplici metalmeccanici». Lo fa perché gli piace. Ama rimanere a bocca aperta per le meraviglie sottomarine. «Sono contento che il film sia a Venezia, la gente deve conoscere questo lavoro». Alle prime immersioni non c’era modo di comunicare con la terra se non con un ponte radio. Oggi c’è il wi-fi che permette di fare qualche telefonata, ma non sempre perché le batterie sono acide e potrebbe essere pericoloso tenerle a quella pressione.Capitano cose strane nel fondo del mare. Come essere circondati da un branco di barracuda mentre si sta facendo una saldatura. Oppure, mentre si scende con gru ad uncino, capita di veder passare accanto a sé due squali e ci si sente come vermi in cima a un amo. 

«Una volta mentre stavamo lavorando ci ritrovammo al buio completo. Capii che qualcosa si era messo tra noi e le luci. Ebbi un brivido, non sapevo cosa fare, pensavo “mi giro o non mi giro?”, “mi muovo o rimango immobile e aspetto che torni la luce?”. Non ero sicuro di voler sapere perché non si vedeva più nulla. Mi voltai e vidi il muso di una cernia gigante. Era enorme, mi misi accanto a lei, era più lunga di me con le pinne. Allora le diedi una carezza e si spostò. Tornò così la luce». È come in un romanzo di Jules Verne che scriveva «Il mare è l'immenso deserto dove l'uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé». Alla fine di ogni missione sono necessari diversi giorni di decompressione graduale per riabituarsi alla terra ferma, alla vita normale, poi un mese di riposo, prima di ripartire verso un altro mare.

Ravenna&Dintorni 1 settembre 2011

Nessun commento:

Posta un commento