venerdì 14 maggio 2010

In morte della lingua Italiana: Come cinema, tv, giornali e teatro vogliono obbligarci al “linguaggio unico”


“Parlare così non è corretto”. “Quel termine non è appropriato, è un po’ dialettale”. “La “è” va apèrta”.
Nell’Anno Domini 2010 ancora i tutori della corretta dizione dell’Italiano ci illuminano su quali termini rientrano nel vocabolario corretto e quali no. Qual è la pronuncia “giusta” e quale quella “sbagliata”. Ora: perché dovremmo parlare tutti nello stesso modo? Perché i modelli di riferimento dovrebbero essere Barbara D’Urso o Massimo Giletti e non Stecchetti o Pasolini? È possibile adottare un linguaggio e un accento che non sia la dizione televisiva.
Dopo aver ucciso i dialetti del nord Italia in nome della modernità (per poi piangerli e farli riscoprire a qualche geniale poeta rimpianto solo dopo la morte) ora l’intento della cultura dominante è quello di sopprimere anche gli accenti locali e quel ricco sottobosco di termini e frasi peculiari di alcune piccole aree.
Tradurre” in italiano certe parole come “patacca” o “spampanato” è impossibile senza ucciderne il significato. In questo modo si perde una ricchezza inestimabile figlia della storia di un popolo, quello italiano, nato da milioni di piccoli rivoli culturali che hanno creato la ricchezza di questi territori. Sarebbe come decidere che la pasta sono solo maccheroni e, di conseguenza vietare i tortellini, perché non rientrano in queste due categorie.

Giornali, televisione, cinema e teatro stanno aiutando questo processo livellando termini e il linguaggio. Se l’unità linguistica fu intesa negli anni ’50 come “l’ultima fase dell’unità d’Italia”, oggi svolge la funzione inversa, la scomparsa della ricchezza delle diverse tradizioni territoriali rischierebbe infatti di provocare una deriva qualunquistica del linguaggio.

Perché gli unici accenti permessi al cinema e in televisione sono il romano, il napoletano e sono accettati solo se si tratta di personaggi comici o se si parla di crimine organizzato?
Le persone normali in giro per lo stivale parlano con accenti diversi e usando termini e modi di dire che legati al territorio. Le persone vere non parlano lo stesso italiano del cinema e della tv. È interessante vedere con quanti termini vengono declinate alcune parole. Ad esempio “i rifiuti” diventano “il rusco” in Romagna, “la monnezza” a Napoli, “il lercio” in Toscana, ecc. Molteplicità che giunge fino a termini relativamente recenti come le bizzarre traduzioni locali del chewing-gum che diventa “gomma”, “cicca”, “ciga”, “cingomma”.

Ci sono frasi che in alcune città hanno un significato e subito fuori dalle mura non significano più nulla. Queste bizzarrie semantiche nascondono a volte una vera propria filosofia o più semplicemente una aneddotica. Ad esempio “dammi il tiro” a Bologna significa “apri la porta”, “se lo accolla” a Palermo significa che “aderisce con entusiasmo” (traduzione che non rende l’idea appunto!). Ma fuori da quella piccola comunità non ha più un significato.
Questa è per me la vera ricchezza della lingua italiana. Sarebbe bello non farla schiattare.

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